Angelo Mellone – Matricola numero 16
La politica, da una parte e il sentimento umano dall’altra fanno da equilibratori in Fino alla Fine – Romanzo di una catastrofe, ultimo libro pubblicato da Angelo Mellone. Giornalista, scrittore e capostruttura Rai. Editorialista e inviato di politica, cultura e costume per numerosi quotidiani nazionali, autore e conduttore di programmi radiofonici e televisivi. Ma soprattutto, un tarantino classe ‘73 cresciuto con la propria terra scolpita nell’animo. Una storia personale legata all’acciaio e all’Ilva (proprio come quella di Dindo, Claudio e Valeria; i tre protagonisti del romanzo), con il padre che fu la matricola numero 16 dello stabilimento siderurgico e di cui Angelo si definisce “figlio e orfano”. Così, attraverso la narrazione, Mellone fa riemergere tutto. Con un monito che lascia un piccolo spiraglio a un finale incerto e ancora da scrivere. “Verrà ancora il tempo degli dèi. Abbiamo vinto, amico mio, perché abbiamo perso.”
Nasci a Taranto e ti trasferisci a Roma: con che sogni sei arrivato nella Capitale?
Io ho sempre voluto fare il giornalista: amavo leggere e scrivere, da ragazzo avevo fatto anche dell’attività politica che mi aveva insegnato a parlare in pubblico e catturare l’attenzione dei miei coetanei, anche quando ero in minoranza. Oggi ci sono i corsi di public speaking, ai miei tempi invece dovevi prendere la parola in assemblea per dare forza alle tue idee. Ho cominciato a lavorare a ridosso della laurea e da lì non mi sono più fermato.
Quando è importante nella vita sentirsi realizzati?
Ma ti dirò che non mi sento realizzato. L’aggettivo giusto è “risolto”: credo di avere il baricentro al posto giusto per affrontare nuove sfide e proiettarmi verso obiettivi più stimolanti. Io credo che ciascuno di noi nasca con un numero variabile di talenti. Come diceva Edmondo Berselli “il mondo è pieno di giovani talenti, i venerati maestri sono pochi perché per la maggior parte rimangono i soliti stronzi”. Le abilità ci identificano, ma ognuno di noi le sviluppa in maniera diversa e con tempi completamente differenti.
Le delusioni come si affrontano?
Cosa fatta, capo ha. Banalmente ci si rimbocca le maniche e si va avanti. Bisogna mettersi sempre in discussione: se hai un’alta autostima di te ma pensi di non riuscire nella vita per colpa del mondo là fuori allora sei un narcisista. Quando è nata mia figlia ero completamente disoccupato, ho cambiato casa, ho avviato alcune collaborazioni senza un lavoro fisso rischiando ma consapevole del fatto che prima o poi qualcosa sarebbe accaduto perché stavo remando in quella direzione. Ed effettivamente poi qualcosa è successo: un mio libro arrivò a Il Giornale tra le mani di Maurizio Belpietro che mi chiamò dicendomi che stava cercando una figura come la mia. Fortuna, circostanze, momenti che hanno bisogno di essere subito colti.
Come nasce una storia? Qual è il processo creativo che ti porta a realizzare un romanzo?
Per me il caso porta al punto d’innesco. Per la maggior parte dei miei romanzi è stato così. Parlare con un amico, vedere un’immagine, assistere una scena: se questa cosa si sedimenta dentro di me e continua a chiamarmi allora merita la mia attenzione. Fra tutte queste poi ovviamente solamente una, quella più consistente, arriva a diventare una storia che finisce su carta. Per i miei libri c’è una prima fase di stesura dove scrivo quattro pagine che rappresentano la trama portante del libro: questo nucleo diventa poi di quindici-venti pagine nelle quali mi annoto pensieri, correzioni e aggiunte. Contemporaneamente scrivo i capitoli del libro, ma non in maniera meccanica: spesso mi succede che sono a metà libro e torno a due capitoli prima per aggiungere nuovi dettagli oppure stravolgo tutto facendo diventare personaggi buoni i cattivi e viceversa. Come nella vita reale. Lascio volentieri che la storia prenda il sopravvento sulle mie decisioni, e se capisco di aver scritto qualcosa che ha una dinamica che appassiona allora mi sento protetto e comincio ad avere consapevolezza che il manoscritto finale funzionerà.
Nel tuo caso, se potessimo collegare quello che hai nella testa a un computer probabilmente assisteremmo a un film…
Questa è un’altra mia caratteristica. Tutto quello che scrivo lo penso per immagini: scrivo sempre con questa schema, non per concetti ma immaginandomi persone che fanno cose e si muovono nel tempo e nello spazio.
Un tempo e uno spazio che sono anche quelli di un futuro prossimo come accade in Fino alla fine, il tuo ultimo romanzo.
Quella è una furbata, passami il termine. Se ambientassi la storia nel 2060 allora quella sarebbe una trama poco plausibile, sarebbe un libro di fantascienza. Invece ambientandola nel 2022, a soli tre anni dal presente, ho un lasciapassare per scrivere cose verosimili ma fortemente romanzate, applicando un filtro di fantasia. Per questo all’inizio scrivo “Questo libro è ispirato a fatti veri non ancora accaduti”.
Però tu sei il primo che si augura che non accadano…
Io uso Taranto come metafora per l’Italia. In termine letterale si direbbe una sineddoche, ovvero una parte per il tutto. Fino alla fine ha un innesco visionario: è come se il modo in cui interagiamo sui social diventi vero. Lì ci polarizziamo, litighiamo furiosamente, diventiamo tribali. Io sui social vado a cercare il mio simile. Se applicassimo il modo in cui agiamo sui social alla vita reale sarebbe un inferno: conflitti, litigi, devastazione, violenza. Io immagino come se questa cosa accadesse nella realtà. Nel caso di Taranto immagino così una città divisa in due, dove da una parte ci sono gli operai che difendono il loro posto di lavoro e dall’altra il radicalismo ambientalista. Il tutto in una contrapposizione violenta, feroce, e soprattutto senza zone grigie. Una città messa a ferro e fuoco dove non c’è neutralità. Un’immagine molto dura, molto cupa.
Come si reagisce?
L’augurio ovviamente è che non si arrivi a questo perché comunque è una realtà molto cupa quella che dipingo. Io mi immagino un’Italia dove una certa fascia dell’ambientalismo diventa violenta. Dopotutto il conflitto violento gira attorno alle ideologie. Così io immagino che nella città in cui più di altre esiste la lotta industria-ambiente, l’ambientalismo che attualmente è pacifico diventi violento. Della serie “combatteremo fino alla fine con ogni mezzo”. Intorno a questo conflitto si distrugge poi l’amicizia tra quattro protagonisti che riprendo da un altro mio libro, Nessuna croce manca.
Ma tu che lì a Taranto sei nato e cresciuto, come vivi oggi l’Ilva?
Io mi definisco figlio e orfano dell’acciaio. Mio padre era la matricola numero 16 di quello stabilimento, è stato uno dei primi 25 assunti. Mia madre è genovese e mio nonno era dirigente dell’Italsic di Genova. Alla fine degli anni Sessanta viene trasferito in Puglia e lì mia madre conosce mio padre. Sugli impianti. Io persi mio padre all’età di tredici anni per colpa di una malattia che non è completamente estranea al suo lavoro. In quello stabilimento così grande sono morte tante persone. Ma nonostante questo, penso che il problema sia molto più complesso di quello proposto dagli ambientalisti. La storia industriale di Taranto non può essere banalizzata e condannata in toto, come se fosse tutto da buttare. La ritengo una stupidaggine. Nel 2019, uno deve avere la possibilità di vivere in una città dove c’è un’azienda che fa acciaio in modo eco-compatibile.
Ritieni manchi quindi una certa coerenza in questo movimento?
Più che ambientalista, lo definirei qualunquista. Magari sono gli stessi che vogliono chiudere la fabbrica ma aprire un aeroporto. È gente che non ha la minima visione economica, di futuro e strategia. È semplicemente qualcuno che ha trovato un mostro da combattere e trova senso nel combattere il mostro.
Da uno del Sud che ha viaggiato e visto il mondo, quanto è profondo il divario tra meridione e il resto d’Europa?
Enorme. Però non è uguale per tutto il meridione. Alcune zone della Campania a della Puglia hanno grandi possibilità di sviluppo, ma altre vivono in condizioni terribili. Uno dei problemi principali è dovuto allo spopolamento delle giovani generazioni. Finché non si trovano strumenti per farli tornare e per incentivare quelli che vorrebbero restare e non partire, continuerai a privare queste terre di risorse. Io non credo assolutamente all’idea di un Sud che vive solo in turismo e agricoltura. Bisogna riportare l’industria in queste terre.
Giornalista, autore e anche conduttore: in quale ruolo senti di esprimerti meglio?
Quando scrivo. Quindi anche nella produzione televisiva. Non c’è stato mai un momento in cui ho dovuto decidere, mi sono sempre trovato meglio a creare programmi per altri. La conduzione è un po’ la ciliegina. La televisione crea mostri, quindi non stare sempre davanti allo schermo aiuta a restare se stessi. Troppo video ti fotoscioppa l’anima.
In quest’epoca i social la fanno da padrone. Quanto hanno aggiunto e quanto hanno tolto al mondo dell’informazione?
Hanno tolto molto di più di quanto hanno aggiunto. Hanno tolto molta professionalità. Fanno credere che chiunque possa essere giornalista, ma non è vero. Viviamo in un mondo che è sotto l’effetto di una overdose massiccia di informazioni, ma poche sono veritiere. Ormai non si capisce la differenza tra informazione e opinione. Per quanto riguarda i lati positivi, hanno reso tutto più veloce e facile da reperire.