La scrittura d’acqua e di luce di Suzanne Saroff
Suzanne Saroff, (nata nel 1993 a Missoula nel Montana e residente a Brooklyn, New York) oltreché artista e regista, è raffinata fotografa, capace di assimilare il soggetto fino al raggiungimento di una plusvalenza estetica della realtà. Indagare e definire la complessa personalità di questa operatrice d’arte equivale a porsi in una dimensione alchemica, in progressiva dilatazione sulla coincidenza dei rimandi, una sorta di tramite di tutte le informazioni sul mondo organico e inorganico, genesi e unitamente scoperta del divenire.
Si legge in un verso di Rumi, poeta mistico persiano, “Se la forma scompare la sua radice è eterna”; e in questo assioma, in questo particolare sentimento di attraversamenti, innesti e concomitanze, in questa preghiera all’orientale di trasporre gli aspetti del creato in ritmi dirottati – quasi un intercodice fra mutazioni – abita e si feconda il pensiero della Saroff. Un pensiero che non risulta mai frammento isolato evocato da un’orbita perimetrata, bensì dialogante proliferazione di senso, elasticità che ne rinvia continuamente la fine.
In Suzanne, lo scatto del dettaglio, ravvicinatissimo, diventa calligrafia del sublime, irrorata di luce e colore, un colore dirompente, vellutato eppure diafano, un colore geloso della vita e della storia, mitico, rituale; epilogo e congiuntamente nascita di un transito perentorio, addirittura baldanzoso, dentro una splendida solitudine. Sembrano creature che sanno aspettare nel silenzio dell’ascolto.
Nelle nature morte spezzettate, moltiplicate, accresciute e deformate attraverso bicchieri pieni, si assiste poi a uno spettacolo inconsueto: una scultura che non c’è ma si palesa e agisce, isole che si diffondono e si contaminano dentro uno spazio che ne raccoglie altri, acqua e luce a pari merito: in questa contemporaneità delle misure c’è palpito e riflessione, prova di acuta sensibilità ibridatoria che fa di queste immaginose composizioni uno spazio spirituale. Che ci coinvolge tutti. Perché tutti, nella routine quotidiana, dopo aver dissipato la bellezza, ingolfandoci di superficialità, avvertiamo la spinta e l’energia di una parentesi contemplativa. Che si traduce vieppiù in responsabilità di giudizio.
Si osservino, in queste foto, gli elementi, tra irriverenti e votivi, portatori di una memoria, quasi un ex voto. Frutti, pesci, fiori… tutti intermittenti, scomposti e ricomposti da interruzioni non intese a ferire la materia, né intese in qualità di protesi o appendici della stessa, ma atte a evidenziare la tensione potenziale insita nei corpi apparentemente inanimati. Assistiamo a un tempo fluido, un raggio d’azione che sventando la staticità della sostanza ne conferma invece la sua infusa proiezione mobile e creativa. Ubiqua, in qualche modo, perché interferiscono pure le ombre, che con solenne alterità, intervenendo sulla scena, perpetuano la dinamica: respiro e collante dell’oltre e dell’altrove.
Una poetica dunque di grande fascino, quella di Suzanne Saroff, capace di rivelarci che non esiste nessun luogo e nessuna cosa in sé: il mondo esiste in relazione a chi lo guarda, lo penetra, lo interpreta. La fotografia consente una visione più complessa, fantasiosa eppure consapevole, partecipe e non soltanto spettatrice, in grado di traghettarci dentro l’imprevisto e la sorpresa, dentro un dialogo interiore e per questo universale.